09 dicembre 2008

Colibrì

In questi giorni ho messo insieme un po' di immagini per fare la testata di un sito relativo a un progetto a cui medito da un po' di settimane... Questa potrebbe essere la versione definitiva...



Aggiornamento del 3.5.2017: non ho mai sviluppato il progetto, e il nome "Colibrì" nel frattempo è stato usato da un'azienda che promuove copertine protettive per libri, vedi www.colibrisystem.com.

18 novembre 2008

Diritto all'oblìo? Meglio il diritto al link.

La punizione (detenzione o altro), che molti sono portati ad assimilare a una vendetta da parte dello Stato su chi ha commesso un illecito, è in realtà istituzionalmente concepita come un processo che con la vendetta non ha nulla a che fare, e che ha il fine di rieducare e reinserire la persona nella società (il fatto che questo non avvenga e che anzi il detenuto spesso in carcere peggiori soltanto è un altro discorso).
Quindi se ad esempio viene emessa una sentenza con cui si comminano al criminale X anni di carcere, il significato di questa sentenza è che si suppongono X anni come necessari a che la persona venga riabilitata e dopo il quale avrà quindi saldato il suo "debito formativo".
..E dopo il quale ha diritto di rifarsi una vita.

In vista di tale rifacimento della vita è stato istituito, nel Codice in materia di protezione dei dati personali, il diritto all'oblìo , finalizzato a risparmiare, a chi ha subito una condanna, la pena aggiuntiva di una gogna mediatica eterna.

I responsabili per l'assunzione del personale di moltissime aziende, subito dopo la lettura di un curriculum, fanno subito una ricerca su Google con nome e cognome del candidato. E di come sia socialmente squalificante avere il proprio nome associato al reato che si è commesso (o che addirittura non si è commesso), l'aspetto lavorativo è solo un esempio (uno dei più validi, a meno che non si tratti dell'assunzione in un'associazione per delinquere).
Ma togliere da Internet un dato pubblico (che comunque rimane consultabile in altro modo) mi sembra concettualmente stupido: un dato è pubblico, oppure non lo è.
E da un punto di vista pratico, una normativa che consente la pubblicazione di pagine Internet su cui si parla di una certa vicenda, ma solo fino a una determinata data, è una normativa che per esempio i gestori dei forum impazzirebbero a dover rispettare (probabilmente in pochi ci riuscirebbero), e d'altra parte per questo motivo la violazione del diritto all'oblìo così inteso sarebbe così diffusa da non lasciare al legislatore la minima speranza di ottenere il risultato preposto, fatti salvi i casi in cui il diretto interessato trovi la pagina in cui si parla di lui e ne chieda la cancellazione o chieda l'oscuramento del suo nominativo.
Credo una soluzione intelligente sarebbe, per chi parla di un conannato, l'obbligo di linkare (e farlo in maniera graficamente evidente, e senza bisogno che questi lo richieda) la sua pagina web (se esistente, ovvio), dove egli può spiegare che si è pentito del suo crimine, o si dichiara innocente portando le proprie argomentazioni, e/o racconta com'è cambiata la propria vita nell'ultimo periodo, etc.
Insomma, la soluzione secondo me si trova non cancellando un'informazione, ma dando all'individuo in questione la possibilità di integrarla con la stessa potenziale visibilità.
È vero che una visibilità potenziale diviene effettiva solo in alcuni casi: un link non sempre viene cliccato, e la "pigrizia intellettuale" porta moltissime persone a fermarsi alle prime parole che legge, così come alle prime che sente dire, senza andare oltre ("se l'hanno condannato qualcosa avrà fatto", o, nei casi più patologici "se la polizia l'ha picchiato ci sarà un motivo", etc), emettendo un giudizio superficiale.
Ma è anche vero che, se una grande quantità di pagine web che parlano di una notizia linkano obbligatoriamente la stessa "pagina di difesa", quest'ultima avrà molte visite, al punto da comparire fra le prime, se non per prima, nei risultati dei motori di ricerca quando viene cercato, ad esempio, il nomimativo del protagonista della vicenda.
Inoltre un'idea potrebbe essere obbligare per legge il webmaster a far sì che all'inizio dell'articolo venga scritto un avvertimento dedicato al "link di difesa", del tipo "Attenzione: [nome e cognome], di cui in questo articolo si parla male, mette a disposizione la propria versione alla pagina [...]".

AGGIORNAMENTI:

- Con la sentenza C-131/12 la Corte di Giustizia Europea ha sancito il diritto all'oblìo, in ragione del quale i motori di ricerca web devono cancellare dai loro risultati le pagine in cui si fa il nome di cittadini parlando di condanne da loro subite o di fatti disonorevoli di cui sono stati riconosciuti autori, "a meno che non vi siano ragioni particolari, come il ruolo pubblico del soggetto"

- Google ha messo a disposizione un modulo col quale si può chiedere di rimuovere una pagina dai suoi risultati di ricerca, fornendone l'indirizzo, valide motivazioni e una prova dell'identità del richiedente.

- Settembre 2019: La Corte di giustizia dell'Unione Europea ha stabilito che Google non è obbligato a garantire il diritto all'oblìo fuori dall'Europa. Però all'interno dell'Europa rimane obbligata a garantirlo.

28 ottobre 2008

Pubblicità di operatori sanitari: si può, ed è giusto

Fino a poco tempo fa in Italia non era permesso pubblicizzare l'attività di professionisti della salute in televisione e sui giornali (tranne che quelli specializzati). Probabilmente lo spirito della legge che lo vietava, e cioè la legge 175 del 1992, era evitare che la visibilità di un medico, o fisioterapista, o logopedista, etc dipendesse dalla sua disponibilità economica anziché dalla sua competenza, ed evitare così disparità ingiuste fra colleghi.

Ma si trattava di un "comunismo mediatico" incoerente visto che, secondo la stessa logica, si sarebbe dovuto abolire la pubblicità in TV e sui giornali per qualsiasi prodotto o servizio, sia quelli che hanno a che fare con la salute (es. i farmaci, iper-pubblicizzati da sempre), sia quelli di altro tipo ("è giusto che la mia neonata azienda produttrice di ottima polpa di pomodoro in scatola abbia una minore visibilità di quella multinazionale che produce un prodotto peggiore, solo perché ha i soldi per pagarsi la pubblicità?").

La Legge Italiana 175 del 1992 è stata in gran parte abrogata col Decreto Bersani del 2006 e in seguito invalidata del tutto dalla Corte Europea, che l'ha ritenuta discriminatoria e inutile alla tutela della salute (17 luglio 2008, sentenza in seguito a domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Giudice di pace di Genova).

...Giustamente.

Non solo perché ognuno deve poter lavorare coi propri mezzi per farsi strada nel mercato (se si crede nel libero mercato), ma anche per un motivo che vede lo spirito della legge 175/92 tradito dalle conseguenze reali della sua stessa applicazione. Infatti fra professionisti della salute esiste inevitabilmente una disparità dovuta a vari fattori su cui è impensabile intervenire. Tipico esempio è la differenza di visibilità fra un medico appena uscito dalla scuola di specializzazione e un suo collega che lavora da molti anni (da ricordare che non sempre avere un'esperienza più lunga significa essere più competenti).
Di solito la risposta che le persone danno quando sentono parlare di questo problema è del tipo "Basta avere un po' di pazienza e costanza e se uno è bravo verrà premiato dal passaparola fra i pazienti". Ma il passaparola è decisamente sopravvalutato. Se si escludono i rari casi in cui un paziente si rende conto di un gravissimo errore del professionista e i casi (ancora più rari) in cui si rende conto della bravura straordinaria con cui ha lavorato, l'influenza del passaparola, nel bene e nel male, è davvero minima. Per rendersene conto basta ragionare un attimo con la propria esperienza e chiedersi:

- Quante volte in un anno mi sono rivolto a un operatore sanitario?
- Quante volte ho parlato di quell'esperienza a un conoscente?
- Quando l'ho fatto, quante volte ho detto il nome del professionista anziché dire semplicemente es. "sono andato dal dermatologo" ?
- Considerando tutte le volte che ho parlato a un conoscente della mia esperienza, qual era la probabilità che l'interlocutore fosse veramente e attento a quello che dicevo al punto di ricordarsi il nome del professionista di cui gli ho parlato?

La verità è che di solito un operatore sanitario è conosciuto prevalentemente non per il passaparola, ma grazie ai medici di famiglia che consigliano ai loro pazienti di rivolgersi a lui e grazie alla visibilità "fisica", "geografica", degli ambulatori nei quali lavorano.

Allora, con la disoccupazione che c'è in Italia anche nel settore sanitario, se un giovane professionista della salute fresco di studi ha il coraggio di intraprendere una carriera di libero professionista, il suo diritto di essere conosciuto e "provato" dai pazienti corrisponde sostanzialmente al suo diritto di farsi pubblicità sui giornali, in televisione e sul web (anche in quest'ultimo la pubblicità di operatori sanitari era vietata ed ora non più).

Avere la disponibilità economica per prendere in affitto o comprare uno spazio dotato di grande visibilità e per trasformarlo in studio o ambulatorio, avere un medico di famiglia come amico o arrivare da lui prima degli altri colleghi per stipulare un accordo (illegale) sulla percentuale da lasciargli per ogni paziente inviato non possono essere l'unica soluzione.

15 aprile 2008

Fumare: una scelta? Non proprio.

Sostengono alcuni fumatori, specialmente quelli giovani e che hanno iniziato da pochi mesi o pochissimi anni, di fumare per una loro scelta, una scelta fatta dopo aver valutato i pro e i contro, tirato le somme e concluso che ne vale la pena.

Ritengo superfluo prendere in esame pseudo-argomentazioni che ormai quasi tutti riconoscono come prive di senso, del tipo “il cancro viene lo stesso", "dipende solo dalla genetica", "l'altro giorno un non fumatore è morto sotto un camion", "anche i gas di scarico fanno male”, arrampicate sugli specchi che rivelano l’intenzione di giustificare a tutti i costi un comportamento che non si vuole mettere in discussione.

Guardando invece l'aspetto razionale della presunta "scelta" di fumare, trovo basilare capire quali siano le condizioni per le quali una "scelta" sia tale.
Proprio in base alla insoddisfazione delle condizioni che io ritengo necessarie per parlare di scelta, espongo qui tre motivi per i quali secondo me il fumatore non è una persona che sceglie, ma una vittima della propria superficialità.

1)

Tutti i fumatori, nessuno escluso, hanno fumato le loro prime sigarette sicuri che si sarebbe trattato di sigarette in eterno sporadiche, che non li avrebbero resi dipendenti. Invece la quasi totalità dei fumatori ha sviluppato una dipendenza.
Dipendenza di cui esistono vari tipi:

- quella del fumatore che prova più volte a smettere senza riuscirci, e che per questo è discretamente incazzato e maledice la sua prima ingenua fumata;

- quella del fumatore che tante volte ha detto "Eh, sarebbe bello smettere" ma non è abbastanza motivato a farlo, perché crede di non essere capace e forte, coscente anche che nel periodo in cui il fumatore diventa ex-fumatore sussiste uno stress incompatibile con le attività della propria vita quotidiana

- quella del fumatore che potrebbe "sopravvivere" senza sigarette, ma trova che un caffè senza sigaretta non è un caffè, una serata con gli amici senza sigarette non è una serata (talvolta sembra dimenticare che, se fosse un non-fumatore, un caffè senza sigaretta sarebbe un dignitosissimo caffè, e analogamente per una serata con gli amici);

- quella del fumatore bisognoso di sigarette a tal punto che non vede neanche lontanamente la possibilità di smettere, e al quale per difendere la propria autostima non rimane che giustificare la propria abitudine dicendo che ci sono tante altre cose che fanno male, che Tizio fumava eppure ha campato 90 anni, e che Caio non fumava eppure è morto sotto un camion, che le malattie dipendono solo dalla genetica, che mangiando le arance si compensa al danno del fumo, e via delirando;

- quella del fumatore che lucidamente si dichiara non dispiaciuto per il fatto di essere dipendente, pur sapendo che fumare fa male (anche se spesso non si rende conto di *quanto* fa male), e dichiara che questa decisione è stata razionalmente ponderata dopo aver messo su un piatto della bilancia il piacere del fumo e sull'altro i danni alla salute e il loro rischio (ma, a parte il fatto che spesso il contenuto di questo secondo piatto della bilancia è conosciuto solo vagamente, fra poco spiegherò perché secondo me questo tipo di valutazione è in realtà molto meno "lucida" di quello che molti ritengono)

Una scelta è tale se innanzi tutto si conosce ciò che si sta scegliendo.
Per questo motivo, qualunque delle categorie sopra descritte il neo-fumatore stia accingendo a infoltire, la "scelta di fumare" non può dirsi tale a meno che non equivalga a rispondere di sì alla seguente domanda: "Sei disposto, per quella che adesso è una sigaretta sporadica, a diventare quasi sicuramente un fumatore che difficilmente potrà fare a meno di un numero di sigarette tali da mettere a serio rischio la tua salute? Prima di rispondere considera che se ora hai la netta impressione di essere uno dei pochissimi capaci di mantenere la sporadicità della sigaretta, questo non significa niente: fino alle prime settimane di fumo, non esiste conoscitore di sé stesso in grado di capire se tale impressione è veritiera (e quando ti accorgi che non lo è, ormai è troppo tardi, la trappola è proprio questa)".

Ecco il primo motivo per cui la "scelta" di fumare è una falsa scelta: nessun neo-fumatore si è posto questa domanda per rispondere "sì". La verità è che egli non si rende conto del fatto che con altissima probabilità questa scelta in futuro non sarà più una scelta. Se se ne rendesse conto, sceglierebbe di non sottoscrivere questa sorta di patto col diavolo.

2)

Anche se può sembrare assurdo, ammettiamo pure che il ragazzino che sta per accendere la prima sigaretta risponda "sì" a quella domanda.
Questo probabilmente testimonierebbe il fatto che di tale domanda, l’espressione “mettere a serio rischio la tua salute” è stata capita solo vagamente.
Sempre considerando che il concetto di "scelta" sottintenda la necessità di conoscere ciò che si sta scegliendo, il neo-fumatore dovrebbe conoscere i danni che comporta il fumo, e conoscerli con esattezza.
Ma non è tutto. Se per scegliere qualcosa occorre conoscerla, per conoscerla (e cioè avere ben presente di che si tratta) non sono certo sufficienti delle semplici informazioni, che hanno effetti diversi a seconda di come vengono propinate. È noto, ad esempio, che la storia di una sola persona che vive anche un piccolo disagio, se raccontata ad arte, può toccare il sentimenti dell'ascoltatore più di un sintetico reportage su cinque persone bruciate vive.
Cosa veramente è capace di far capire a un fumatore quali sono gli effetti negativi del fumo? La scritta sul pacchetto? Le cifre sui morti causati dal fumo? Certamente no. L'unico modo per capire un'esperienza - in questo caso un danno fisico - è provarla.
E siccome è impossibile andare nel futuro a vedere cosa succederà al proprio fisico per poi tornare nel presente e scegliere di rifiutare la sigaretta, non si può che basarsi sul pensiero di altri che hanno avuto questa esperienza.
La maggior parte dei pazienti colpiti da gravi malattie imputabili al fumo smettono di fumare. Alcuni, dopo la loro guarigione o addirittura durante il decorso della malattia, fumano di nuovo. Ma sono sicuro che sia gli uni che gli altri, nessuno escluso, alla domanda "se potessi tornare indietro nel tempo e ti trovassi di fronte alla tua prima sigaretta, la fumeresti?” risponderebbero con un convinto "no". Questo fa ragionevolmente pensare che anche i fumatori di oggi che domani avranno gravi malattie per le quali il fumo è fattore di rischio saranno persone che la penseranno nello stesso modo.

Ecco il secondo motivo per cui la "scelta" di fumare è una falsa scelta: non si possono conoscere i danni del fumo se non si sono provati (e quando si provano, è troppo tardi).

3)

Ma ammettiamo anche che la persona a cui si sta offrendo la prima sigaretta non solo conosca l'alto rischio di andare in contro a dipendenza, ma abbia anche piena coscienza di cosa si prova quando si è vittima dei danni che il fumo potrebbe apportarle.
Quel "potrebbe" al condizionale suggerisce la terza inesattezza che io individuo nel parlare di “scelta”. Quello o quell'altro danno potrebbero arrivare: non è certo che arrivino.
Perché fumare sia una scelta, il fumatore dovrebbe veramente operare un calcolo razionale che tenga conto delle probabilità con la quale questi danni si verificheranno. E contrariamente a quanto si potrebbe pensare di primo acchito, anche quando si hanno sott'occhio degli inequivocabili numeri che ci mostrano quale sia la probabilità che un evento accada, quando c'è di mezzo un fattore emozionale, la parte razionale va se la dorme. Non si calcola, si spera. In risposta a un amico che gli ricorda i rischi del fumo, il fumatore risponde classicamente col gesto delle corna.
Il fatto che i danni da fumo non siano uguali per tutti è sufficiente a creare un "effetto casinò": la persona si aggrappa a qualunque via di fuga da un problema che fa fatica ad affrontare. Com'è noto, chi gioca al casinò sa bene che le probabilità di perdere sono molto maggiori rispetto alle probabilità di vincere. Cos'è successo, allora nella testa di chi una sera al casinò ci ha lasciato un rene? E' successo che per scappare dal proprio problema (nella fattispecie il dover ammettere l'insuccesso della serata), egli ha reagito negandolo, poco importa se negarlo significa moltiplicarlo (tanto lo negherà anche da moltiplicato, finché non finirà i soldi che gli permettono di negarlo).
Del tutto simile è l'effetto SUPERENALOTTO. Nessuno, prima di giocare, fa un calcolo che tiene conto della spesa rapportata alla posta e alla probabilità di vincere: se la probabilità di vincere fosse dieci volte più bassa di quello che già è, probabilmente quasi lo stesso numero di persone giocherebbe ugualmente. Perché chi gioca, di certo non si aspetta di vincere: i soldi che ha speso, li ha spesi per una piacevole speranza. Allo stesso modo, di certo chi fuma non decide di farlo in base a un bilancio sui rischi e sui benefici: semplicemente, la speranza che tutto vada bene basta ad anestetizzare il problema, quindi a non affrontarlo.
Così, chi fuma probabilmente fumerebbe lo stesso numero di sigarette se sapesse che le probabilità di ammalarsi sono 10 volte maggiori rispetto a quelle reali (intendo 10 volte maggiori per tutte le persone, non per lui soltanto, altrimenti scatterebbe il fattore confronto, che avrebbe una certa efficacia.. infatti chi scopre di avere una fisiologia predisposta ai danni da fumo, più facilmente decide di non fumare).
Così come credo che se ci fosse la possibilità di rendersi conto di quali disagi fisici sono propri delle malattie delle quali il fumo è un fattore di rischio (e questo non è possibile se non ammalandosi), moltissimi direbbero addio per sempre alle sigarette, anche se la probabilità di ammalarsi fosse dieci volte minore rispetto a quella reale.

Ecco il terzo motivo per cui la "scelta" di fumare è una falsa scelta: la valutazione in base alla probabilità di ottenere il danno in realtà non viene fatta.

Spero di essere stato esauriente e di aver vaccinato contro il fumo tutti quanti i non fumatori.

E anche di aver fatto definitivamente smettere i fumatori che hanno letto questo mio articolo... da questo momento.

05 aprile 2008

Una legge è un messaggio?

Alla pragmaticità del ragionamento che porta a un'opinione sull'opportunità di varare una certa legge o no in base ai risultati calcolati razionalmente, ho notato contrapporsi il concetto secondo il
quale fare una legge significa anche "lanciare un messaggio", ovvero rischiare di far interpretare in maniera errata lo spirito della legge.
Ad esempio, se legalizzare la droga significa togliere (o quasi) un importante business dalle mani della mafia e un maggiore controllo della tossicodipendenza, d'altra parte tale legalizzazione costituirebbe un "messaggio alla popolazione, che sarebbe più portata a pensare che la
droga non fa male".

Può darsi che in una qualche misura questo sia vero.

Ma dovremmo chiederci:

1) In quale misura? Qual è veramente l'entità del danno alla società derivante unicamente da questo equivoco?

2) Dopo quanto tempo gli effetti di questo equivoco rimane importante come lo era nell'immediato indomani dell'approvazione della legge, quando il suo varo ha avuto un grande impatto mediatico?

3) Non esiste il modo di lanciare contemporaneamente altri "contro-messaggi" mirati a scongiurare tale equivoco?

06 marzo 2008

Catene di S. Antonio: inoltrare o no?

Revisiono questo articolo del 2008 a dieci anni di distanza. Sì, siamo nel 2018 e ancora c'è chi inoltra catene di Sant'Antonio senza verificarne la veridicità. In questi anni ho scritto vari articoli sul tema; il mio preferito (e che è stato ritenuto offensivo da una persona che dopo averlo letto mi ha cancellato dai suoi amici di Facebook... forte, no?) è "Pubblicare e condividere bufale è come rubare (non scherzo)".

Quello che vedi in questa pagina diciamo che potrebbe far parte della pagina 1 del manuale su come usare l'internètte. E insomma...

Come devi comportarti se ricevi una catena di S. Antonio?

Ancor prima di parlare di come accorgersi della veridicità di un appello, è importante premettere che nel dubbio non bisogna inoltrarlo.

Perché?

Anche se la catena di S. Antonio fosse falsa, sarebbe poi quel gran male diffonderla?

.

Infatti:

• Diffondere appelli falsi “diluisce” l’efficacia di quelli veri. Se la gente capisce che una grande percentuale di catene di S. Antonio è una bufala (ed è così), tenderà col tempo a non dare più peso agli appelli in generale, che siano falsi o veri.

• Riguardo alla diffusione di appelli su persone malate da aiutare falsi o "scaduti", che cioè proseguono il passaparola anche dopo che la persona è morta fa sì che i familiari continuino per anni a essere contattati, con grande loro disagio (come vi sentireste se ogni mattina vi chiamassero in tanti al telefono per chiedervi come sta vostra figlia morta di leucemia?), o fa sì che il telefono di una struttura ospedaliera venga intasato di telefonate inutili.

• Diffondere una bufala vi fa fare la figura degli ingenui che abboccano a qualsiasi storia senza prendersi la briga di verificarla e senza neppure chiedersi se sia plausibile.

• Le bufale riguardanti sostanze tossiche presenti nei prodotti più disparati danneggiano le aziende che li producono, e con esse i loro lavoratori.

• Le bufale spedite dal posto di lavoro vi possono costare il lavoro! Spesso i programmi di posta aggiungono automaticamente in coda a ogni messaggio il nome del mittente e quello dell'azienda o dell'istituto presso il quale lavora il mittente. Il risultato è che una catena spedita dal posto di lavoro sembra "autenticata" dall'azienda/istituto, che difficilmente gradisce che il proprio nome venga abusato da un dipendente e associato a una bufala.

• La diffusione di false notizie può portarvi in tribunale. Paolo Attivissimo ha detto di essere a conoscenza di almeno un caso in Italia in cui l'incauta diffusione di un appello ha avuto conseguenze legali per chi l'ha fatto circolare.

Quindi

se ti sei accorto di aver ricevuto una bufala e di averla inoltrata a vari destinatari, la cosa da fare per rimediare l’errore è, nel caso dell'invio via email, mandare loro un messaggio di rettifica nel quale ti scusi e suggerisci a chi avesse eventualmente inoltrato l'appello di fermarne la diffusione allo stesso modo; nel caso dell'invio via Facebook, eliminare il post e scriverne un altro di rettifica. Vedi, sull'argomento, l'articolo  "Hai postato qualcosa di errato su FB? LO DEVI MODIFICARE O CANCELLARE. Ecco come fare."

Per il futuro:

riguardo a come accorgersi della plausibilità di una catena di S. Antonio, vengono in nostro aiuto vari blogger cacciatori di bufale. Per questo nella maggioranza dei casi ti è sufficiente andare su Google e cercare un pezzo di testo dell’appello in questione, magari aggiungendo alla stringa di ricerca la parola “bufala”. Se si tratta di una bufala probabilmente otterrai, fra i risultati di ricerca, almeno un articolo che dà spiegazioni in merito.

Se hai verificato che l'appello è plausibile,
A CHI LO PUOI INVIARE?

Sulla bacheca di Facebook o altri social network sei totalmente libero di scriverlo, ricordando che ogni tuo amico, dopo un certo numero di tuoi post non graditi potrebbe annullare la ricezione dei tuoi aggiornamenti.

E via email / altri mezzi di messaggistica privata? Se invii una email, o un messaggio con Whatsapp, SMS, o chat di Facebook non è come aggiornare la tua bacheca di un social network, che è tua e solo tua. Qui si tratta un po' di "entrare in casa di qualcun altro", ed è ancora più opportuno ricordare che nel dubbio non devi inoltrare la catena.
Non solo: siccome molte persone non gradiscono catene di S. Antonio (vere o false che siano) e non vogliono riceverne, è giusto rispettare questa loro posizione e la loro privacy, specialmente se non si tratta di tuoi amici, cosa fra l'altro imposta dalla legge. Una catena di S. Antonio, come ogni altro messaggio, si inoltra solo a persone che abbiamo motivo di ritenere interessate.

Una volta selezionati dei destinatari plausibilmente interessati,
COME EFFETTUARE L’INVIO VIA E-MAIL?

Occorre farlo rispettando la privacy dei destinatari, ovvero non mettendo ognuno dei destinatari a conoscenza dell’indirizzo e-mail di tutti gli altri. Per far ciò occorre cancellare dal testo del messasggio eventuali indirizzi e-mail di destinatari precedenti, ed in oltre inviare il messaggio usando la funzione “carta carbone nascosta”, cosa facile sia usando le varie webmail sia usando i client di posta.

28 febbraio 2008

Outlook Express: fra i client non portabili per Windows è il mio preferito

Dopo aver usato vari client di posta per Windows, Outlook Express rimane il mio preferito *fra quelli non portabili*.

Ecco perché lo preferisco, ad esempio, a Thunderbird.

- E' possibile usarlo come organizer (Thunderbird invece no, visto che se sposti un messaggio bozza in una cartella diversa da "bozze", quando lo apri non è modificabile, e per renderlo modificabile devi prima rimetterlo nella cartella "bozze" e poi aprirlo)

- Nella finestra di un messaggio che stai scrivendo, se il cursore non si trova sull'ultima riga di testo, per portarlo in tale posizione con Outlook Express è sufficiente cliccare in un punto casuale del messaggio alla stessa altezza dell'ultima riga, oppure più sotto; quest'ultimo caso è quello che si sceglie quasi sempre, per "stare larghi": non si è costretti ad aguzzare la vista né a fare movimenti "fini" del mouse. Lo si è invece con Thunderbird, dove occorre cliccare esattamente all'altezza della suddetta ultima riga.

- Con Outlook Express, dopo aver editato un messaggio, è possibile cliccare su "invia" per salvarlo nella cartella "Posta in uscita" e modificarlo successivamente prima di inviarlo, mentre con Thunderbird, a quanto ne so io, il messaggio dopo il clic su "invia" viene inviato immediatamente.

- Con Outlook Express è possibile trascinare su una cartella di Windows un messaggio inviato o ricevuto, per creare immediatamente un file .eml, così come è possibile prendere un file.eml da una cartella di Windows e trascinarla su Outlook Express affinché venga inserito in una cartella di tale programma alla stregua di tutte le altre e-mail. Con Thunderbird niente di tutto ciò è possibile (non con tale semplicità e non senza installare plugin appositi per la conversione)

- La rubrica di Outlook Express è un file.WAB che puoi salvare in una penna usb, inviare via e-mail, etc, e leggere senza problemi su un altro pc indipendentemente dal client di posta, mentre con la rubrica di Thunderbird ciò non è possibile in quanto per leggerla credo occorra importarla nel client, e comunque è salvata in un formato che di suo Windows non riconosce.

26 febbraio 2008

Sono adulto, portami rispetto, bimbo

L'essere umano, strano essere, per il fatto di aver ricevuto in dono una lunga vita, anziché nutrire gratitudine pretende più rispetto.

Chi crede che un adulto meriti da parte di un ragazzino più rispetto di quanto gliene porta, giustifica di solito la cosa dicendo che l'adulto ha più esperienza. Il che, se si dà all'esperienza una connotazione positiva, può significare due cose..

1) L'adulto, nel corso della sua vita, ha compiuto azioni lodevoli

2) L'adulto, nel corso della sua vita, ha imparato nozioni importanti che tu non sai, e può dunque essere un tuo insegnante

Ma queste sono argomentazioni di circostanza, assolutamente di facciata.

Lo dimostra il fatto che un ragazzino dà del lei a un 45enne anche se sa che si tratta di uno che nella vita ha fatto solo il mantenuto (prima dalla famiglia, poi magari dall'ente statale per il quale in teoria dovrebbe lavorare) e che ha un bagaglio di nozioni a livello di cultura generale o di saper vivere inferiori al ragazzino stesso.
E inoltre lo dimostra il fatto che talvolta si sentono frasi del tipo "Quello sarebbe da rimproverare, perché non è corretto comportarsi così.. sai, io non gli dico nulla perché ho rispetto per la sua età.."

Piuttosto la verità sull'educazione al "lei" è questa:

"I bambini accettano qualunque cosa, giusto? Allora fra le cose che gli insegno perché non infilarci che io merito più rispetto di lui? Quando saranno adolescenti, da un punto di vista razionale si renderanno conto che la cosa non ha senso, ma rimarrà l'abitudine"

Come se di per sé l'età fosse da premiare, come se ai compleanni si potesse bocciare, certi che mai la nozione potrebbe apparire, che so, un pizzichino appena appena tendenziosa, i grandi spiegano ai piccoli che i grandi sono meglio dei piccoli. Gratuitamente e in base a nessun merito ho ricevuto in dono una vita lunga un certo numero di anni, quindi io sono meglio di te. Il fatto che sia una sciocchezza lo taci oggi per scarso senso critico e lo tacerai domani, da adulto, per convenienza, visto che sarà arrivato il tuo turno. Insomma, dammi retta, che quando sarai grande mi darai ragione..
Beh, grazie al cazzo! :-)

17 febbraio 2008

Moderatore di mailing list, pretendi dai listanti il formato PLAIN TEXT!

Quando voglio far capire a qualcuno come e perché scrivere e-mail in formato plain text, piuttosto che un HTML, rimando a un articolo che scrissi a mio tempo appositamente.

Si capisce che disporre l'invio di e-mail in formato plain text dà agli altri utenti un beneficio molto maggiore (a tempo indeterminato) rispetto all'impegno richiesto (davvero minimo, e una tantum).

Essendo l'impostazione del formato "plain text" una cosa facile, ai proprietari di mailing list sovrapopolate consiglio di buttare fuori i membri che, pur invitati a leggere la suddetta o altra guida, continuano a inviare e-mail in formato HTML facendo orecchie da mercante (magari stufatisi dopo i primi 3 secondi di problemi tecnici, pur sapendo di poter chiedere aiuto), cosa che purtroppo spesso accade.

Un avvertimento, un secondo avvertimento, e poi fuori. Perché oltre ad essere buona educazione in una mailing list seguire le regole decise dal fondatore, si aggiunge il fatto che l'operazione suddetta ha un rapporto "costo proprio / beneficio altrui" così alto che non effettuarla per pigrizia denota una mancanza di rispetto ancora maggiore.

16 febbraio 2008

Accenti nelle parole monosillabiche

Un monosillabo ha lo stessa pronuncia sia che venga scritto con l'accento che senza.

Ciò nonostante alcune parole monosillabiche vanno scritte con l'accento oppure no, a seconda del loro significato.

  • "CHE" ha l'accento quando è l'abbreviazione di "perché" (es. "ripetimi il tuo nome, ché non me lo ricordo", e non quando costituisce complemento o soggetto (es. "il bigné che ho ingurgitato")
  • "DA" ha l'accento quando è voce del verbo "dare" (es. "mi dà un panino") e non quando è preposizione (es. "vengo da Roma")
  • "LA" ha l'accento quando è complemento di luogo (es. "guarda là!") e non ce l'ha quando è articolo (es. "la stufa")
  • "SE" non ha l'accento quando è congiunzione (es. "se ti prendo...") e quando è un pronome personale atono (es. "se ne vada"); ha sempre l'accento quando è pronome personale tonico (es. "egli porta quell'oggetto sempre con sé"), salvo nei casi in cui la parola successiva sia "stesso" o "stessi", al che l'accento può essere presente o no a discrezione di chi scrive ("sé stesso" / "se stesso", "sé stessi" / "se stessi")
  • "SI" ha l'accento quando indica affermazione e non quando è complemento (es. "si morse il labbro") o particella per la forma impersonale dei verbi (es. "si usa dire").

Nessun accento hanno le parole monosillabiche che hanno un solo significato, ad esempio "sta", "so", "qua", "va", "do".

..e neanche "FA". Quest'ultimo monosillabo è semmai seguito da un apostrofo quando è voce del verbo "fare", abbreviazione dell'imperativo "fai".

15 gennaio 2008

Formato plain text, please

Come e Perché scrivere e-mail in formato solo testo (plain text)
e non in formato HTML

Cominciamo dal perché

Outlook Express ed altri client di posta hanno pre-impostata la composizione dei messaggi in formato HTML. Tale modalità non è in linea con gli standard internazionali, normalmente non presenta alcun vantaggio ed anzi presenta vari svantaggi che possono riguardare i destinatari. Eccone alcuni.

  • E-mail più pesanti. A parità di caratteri, un’e-mail in HTML pesa più del doppio rispetto a un’e-mail in plain text. Questo per vari tipi di destinatari determina una maggior spesa di tempo, una maggior spesa di denaro o entrambi. Infatti, per scaricare i messaggi HTML
    • i destinatari con una connessione lenta, oppure un’ADSL che in quel periodo pesenta problemi a causa dei quali la connessione è rallentata, impiegheranno più del doppio del tempo;
    • i destinatari con una connessione con pagamento non forfettario mensile non solo impiegheranno più tempo, ma spenderanno conseguentemente di più;
    • i destinatari che usano un palmare e pagano la connessione a kilobyte scaricato piuttosto che a tempo spenderanno più del doppio.
  • Lettura più faticosa per chi visualizza i messaggi in formato HTML. Nei reply ai messaggi in formato HTML non viene automaticamente incluso, all’inizio di ogni riga, la freccetta che indica la citazione (o la due freccette che indichino la citazione della citazione, etc). Il testo di chi sta scrivendo, quindi, talvolta si distingue dal testo citato per il tipo e/o colore del font e/o per gli spazi di rientro da sinistra (che però spesso è necessario rifare a mano dopo cancellatue accidentali), talvolta non si distingue affatto, e ciò implica un faticosa lettura della discussione soprattutto quando questa dura più di due o tre e-mail. In oltre, confusionaria è spesso l’organizzazione in paragrafi (che costituiscono le “sotto-discussioni”), perché non distanziati abbastanza fra loro.
  • Lettura più faticosa per chi visualizza i messaggi in formato solo testo. Chi, per prevenire danni da virus o worm ha (avvedutamente) disabilitato nel proprio client o nel proprio account di una mailing list la visualizzazione in formato HTML, e ha quindi disposto la conversione automatica in formato plain text di tutte le e-mail ricevute con formato HTML, a maggior ragione normalmente non ha modo di distinguere a colpo d’occhio le parole del mittente da quelle che il mittente stava citando.
  • Rischio di non corretta visualizzazione per utenti di piattaforme diverse.
  • Rischio generare confusione nella lettura da parte dei listserver a causa dei codici HTML di formattazione che precedono il testo
Il formato HTML per le e-mail è insomma un’autentica sciocchezza (diffusa soprattutto grazie al contributo di Microsoft), ed evitare di usarla quando non strettamente necessario è una questione di educazione.

Ed ecco come fare

Se usi Outlook Express:
  • Barra dei menù: Strumenti --> Opzioni
  • Scheda Invio
  • Formato invio posta --> Testo normale
  • (stessa cosa per l’invio news, se è una funzione usata)

Per gli altri client di posta, verosimilmente la procedura è del tutto analoga (ci possono essere delle variazioni, ad esempio la voce “opzioni” può essere denominata “preferenze” ed trovarsi sotto “file” piuttosto che sotto “strumenti”…)

Se usi la posta via web, di solito l'interfaccia web presenta bottoni con diciture altrettanto analoghe.